
Come sempre, un commento affianca le tavole. Un commento che non vuole certo essere, e non potrebbe in questo contesto, un’analisi filologica e critica. Piuttosto, cogliere qua e là spunti per una riflessione che possa valere anche per l’oggi, in quest’epoca e in questo mondo tormentati, nella speranza che il riferimento alla cultura, alla ragione e al sentimento artistico possa servire da antidoto contro barbarie sempre rinascenti.
Collaborano allora, su queste pagine, testo e immagini. Supporto ineludibile, quello della vista, nel rispolverare il classico per eccellenza della nostra letteratura, oggi, nel pieno di quella che viene chiamata “civiltà delle immagini”. Ma se ci pensiamo, ogni civiltà ha conosciuto il proprio corredo di immagini. La stessa Commedia di Dante ha avuto celebri illustratori. Le chiese e i palazzi dei nobili hanno sempre avuto le loro gallerie di immagini – quadri, affreschi, arazzi. Le stesse facciate delle case recavano i propri ornamenti raffigurativi. Quella umana, da quando, nelle caverne, l’uomo ha cominciato a usare le mani per disegnare e ricavare pigmenti naturali, è sempre stata una civiltà delle immagini, appunto fin dalla preistoria, e prima di ciò che consideriamo “civiltà”.
In questa grande illustrazione dell’umanità allora si inseriscono, con pudore, questi commenti visivi dell’opera di Dante, affidati come sempre, per quanto riguarda i nostrani calendari, alla mano e allo sguardo di Mario Errico, docente di arte del “Rosmini”. Qui alle prese con una cantica meno iconica e più astratta, teorica, com’è quella del Paradiso. C’è allora una velatura violacea che attraversa le varie tavole a rendere questa atmosfera eterea, nella quale tuttavia, raccogliendo la sfida, calare i personaggi: cioè, per dirla con il Dante dell’ultimo canto del Paradiso, il XXXIII, e il centesimo complessivo, a fare la quadratura del cerchio, ad adattare la figura umana a quella circonferenza che il Poeta vede dinnanzi a sé. Al Dante, intento a scrivere nella poca ma serena luce della sua stanza, segue l’immagine di Beatrice, che lo solleva alla luce celeste, e quella di Barnardo che pone il Poeta davanti alla stessa luce divina, in un’esplosione – quasi da cosmico Big-Bang – che sovrasta le due figure. Questo viaggio verso la luce, nella luce, affronta Errico, anche con i vividi colori che, allo stesso tempo, sembrano pastellati (non è questa connotazione tecnica), nel senso che conservano in sé la pasta, la materia di cui sono fatti: come le anime sono ancora, nella resurrezione dei corpi, la carne che furono. E l’esplosione dei colori si mantiene, in queste tavole, allo stesso tempo come soffusa. L’unico modo per avvicinarsi a un mistero insondabile all’occhio, alla parola, alla mente umani.
Enzo Rega
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