Continua, quest'anno, la tradizionale pubblicazione del Calendario illustrato dell'I.S.I.S. (ex Liceo Classico) A. Rosmini di Palma Campania con la seconda parte del viaggio di Dante nella Divina Commedia. Di seguito le illustrazioni e il commento di Enzo Rega.
Il
Purgatorio: un Inferno rovesciato
Con
l’uscimmo
a rivedere le stelle,
la conclusione della prima Cantica, l’Inferno,
sembra restituire speranza a Dante, accompagnato dal suo maestro
Virgilio. E in effetti, al cono rovesciato che si apre all’interno
della terra, nella terra sprofondando, in antitesi “corrisponde,”
scrive Natalino Sapegno, “con l’esattezza di un calco che
riproduce il disegno
della sua matrice, nel mezzo dell’emisfero opposto, solitaria nell’immenso oceano, l’altissima montagna dell’Eden, sulle cui pendici Dante colloca, come sui gradini di una scala che faticosamente ascende verso il cielo, le anime dei penitenti intenti… a rendersi degni della promessa beatitudine”.
della sua matrice, nel mezzo dell’emisfero opposto, solitaria nell’immenso oceano, l’altissima montagna dell’Eden, sulle cui pendici Dante colloca, come sui gradini di una scala che faticosamente ascende verso il cielo, le anime dei penitenti intenti… a rendersi degni della promessa beatitudine”.
Ecco
allora questo “secondo regno”: “calco” del precedente, e
quindi come esso luogo di espiazione, ma opposto,
aperto cioè alla speranza della redenzione. Dalla notte infernale,
infatti, Dante e Virgilio, scrive ancora Sapegno, si trovano “d’un
tratto in un mondo nuovo, soffuso di tenue luce aurorale”, con un
cielo d’un azzurro sereno solcato da astri luminosi.
Questa
atmosfera rendono i primi versi della nuova Cantica:
Per
correr migliori acque alza le vele
ormai
la navicella del mio ingegno,
che
lascia dietro sé mar sì crudele;
e
canterò di quel secondo regno
dove
l’umano spirto si purga
e
di salire al ciel diventa degno.
L’eco
universale dell’Inferno
riparla nelle vicende degli uomini di ogni tempo, e nelle anime dei
dannati trasportati da Caronte possiamo ritrovare tutti I
dannati della terra,
come Frantz Fanon, scrittore martinicano discendente di schiavi
negri, chiama i popoli colonizzati, con un’espressione che possiamo
riferire a tutti coloro, persone o intere comunità, che, abbandonata
la scialuppa infernale, s’imbarcano ora speranzosi su questa nuova
“navicella” del Purgatorio. E vedervi tutti i popoli che escono
da guerre e regimi dittatoriali, o anche che sporgono fuori il capo
da profonde crisi economiche.
Ahi,
serva Italia!
Il
Purgatorio non è però già il Paradiso. È Catone Uticense a farsi
incontro ai due – Dante e Virgilio – con parole minacciose che
fanno intendere come l’ascesa al cielo non sia cosa già fatta. I
popoli che escono da una guerra, da una dittatura, da una crisi
epocale devono ricostruire sulle macerie, a partire dalle macerie: è
questa una condizione purgatoriale, un compito nuovo da affrontare
ma, questa volta, nella prospettiva di una salvezza.
Ed
ecco, nel Canto VI, le anime affollarsi intorno ai due viaggiatori
per chiedere di abbreviare la loro permanenza nell’Antipurgatorio.
Quella permanenza che sembra ancora destinata al nostro Paese che,
risorto dalle macerie del fascismo e della seconda guerra mondiale
come repubblica democratica, fatica a trovare un vero assetto
dignitoso. Tanto che possiamo rileggere, sentendola purtroppo ancora
attuale, la celebre terzina nella quale Dante, vedendo abbracciarsi i
due mantovani, Virgilio e Sordello di Goito, che si riconoscono come
concittadini, apostrofa così la propria Patria:
Ahi
serva Italia, di dolore ostello,
nave
senza nocchiere in gran tempesta,
non
donna di provincia, ma bordello!
Ecco
qui una nuova imbarcazione, dopo quella infernale di Caronte, e
quella che ha aperto il Purgatorio: ora si tratta dell’Italia
stessa, una grande nave che, per fare “l’inchino” ai troppi
potenti di turno, finisce per restare, ieri come oggi, senza un vero
timoniere e rischiarare il naufragio. Dimenticando i sobri costumi di
una pudica donna di provincia – quel mos
maiorum
che Catone stesso invano riproponeva ai suoi compatrioti nell’antica
Roma repubblicana –, l’Italia di oggi e di ieri appare un gran
carrozzone circense, un bordello dai costumi smodati
Seguiamo
poi Dante percorrere le cornici del Purgatorio, incontrando, in sette
gironi, altrettanti “vizi”. Passano davanti a lui i superbi
(Canto X), gravati dal peso di grossi macigni che li costringe,
rannicchiati, a volgere verso il basso, in segno d’umiltà, i volti
che una volta venivano tenuti superbamente levati; o costretti a
guardare poco oltre (Canto XII) bassorilievi raffiguranti esempi di
superbia.
Ecco
poi (Canto XIII) gli invidiosi,
con indosso un saio che li obbliga a un atteggiamento d’umiltà, e
gli occhi cuciti, perché non guardino più ciò che suscitava la
loro invidia: ne conosciamo persone che, sulla base del “perché a
loro sì e a me no”, si sono dati a ogni sorta di malversazione per
avere ciò che invidiavano agli altri?
O sono forse migliori gli accidiosi (canto XVIII), invece inerti e anche inermi nei confronti dell’altrui mal operare, costretti qui, per contrappasso, a correre (loro) gridando esempi sia di buon operare che di accidia punita.
I
golosi
(canto XXIII) invece se ne stanno, magri, affamati e assetati, sotto
un albero colmo di frutta che non riescono a raggiungere. Tra queste
anime di peccatori, Dante ravvisa il poeta Forese Donati con il quale
imbastisce una conversazione che l’accompagna fino al Canto
successivo, nel quale compare una profezia che riguarda il fratello
del poeta, quel Corso Donati, guelfo nero, che Dante ritiene
responsabile della rovina di Firenze: questi, trascinato da una
bestia diabolica, sprofonderà all’Inferno. Torna qui, prepotente,
la “corda civile” di Dante che, additando la corruzione del
proprio tempo nella propria Patria, auspica una ‘salvazione’.
Nella
settima e ultima cornice, è la volta dei lussuriosi
(canti XXV-XXVI), avvolti da fiamme che ricordano quelle,
metaforiche, della passione che li avvolse in vita. Ma tra queste
anime incontra pure quella del poeta e maestro della poesia italiana,
che così si presenta: “son Guido Guinizelli; e già mi purgo, /
per ben dolermi prima ch’allo stremo”; cioè, per essersi pentito
prima di morire, Guinizelli s’è salvato dall’Inferno. L’affetto
che questo incontro muove in Dante sta lì a testimoniare che, pur
nelle miserie civili, la poesia, la cultura rappresentano una leva
potente.
Attraverso
il fuoco purificatore
Perché
il riscatto sia possibile, e perché sia davvero consentito
sollevarsi più in alto, è necessario affrontare una vera “prova
del fuoco”, questo perché solo la forza rigeneratrice delle fiamme
davvero purifica. In pratica, Dante, per procedere, deve superare il
“muro di fuoco” che avvolge la cornice dei lussuriosi. Virgilio
stesso esorta Dante, spaventato da tale prova: “Or vedi, figlio:
tra Beatrice e te è questo muro” (canto XXVII).
E così Dante supera la prova e i due pellegrini riprendono il viaggio verso la vetta. Fermatisi per la sosta notturna, Dante ha un sogno che prefigura il Paradiso ormai davvero vicino: vi compaiono due donne, che anticipano Beatrice. A parlare è la prima, una donna giovane e bella, che va raccogliendo fiori, e che presenta se stessa e l’altra figura femminile, sua sorella:
“Sappia
qualunque il mio nome dimanda
ch’i
mi son Lia, e vo movendo intorno
le
belle mani a farmi una ghirlanda.
Per
piacermi allo specchio, qui m’adorno;
la
mia suora Rachel mai non smaga
del
suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’è
di suoi belli occhi veder vaga
com’io
dell’adornarmi con le mani;
lei
lo vedere, e me l’ovrare appaga”.
Chi sono queste due
misteriose donne? Si tratta di Lia e Rachele, le due figlie di Labano
e Giacobbe, di cui narra nella Bibbia: esse rappresentano
rispettivamente la “vita attiva” e la “vita contemplativa”.
Evidentemente, per Dante, che ha ripercorso nell’Inferno e nel
Purgatorio le miserie umane, solo impegno concreto e studio,
congiunti, possono indicare una via d’uscita. Bello è che, come
per Beatrice, si tratti di donne! E viene in mente una donna del
Novecento, la filosofa Hannah Arendt, che s’è occupata dei
totalitarismi contemporanei, e che ha intitolato proprio
Vita activa
e
La vita della mente
due sue importanti opere.
Ma
torniamo a Dante che, sulla base di questi auspici, finalmente è
pronto a compiere l’ultimo salto verso il Paradiso, ora non solo
per contemplare le stelle, ma per innalzarsi fin lassù:
Io
ritornai dalla santissima onda
rifatto
sì come piante novelle
rinovellate
di novella fronda,
puro
e disposto a salire alle stelle.
di Enzo Rega
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riferimenti nel testo sono a Dante Alighieri, Purgatorio,
a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1956, 1969;
Frantz Fanon,
I dannati della terra (1961),
Einaudi, Torino 2007; Hannah Arendt, Vita
activa. La condizione umana
(1958), Bompiani, Milano 2000 e La
vita della mente
(1978 ), Il Mulino, Bologna 2009.
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